lunedì 31 agosto 2015

I NUOVI ORGANI COLLEGIALI NELLA SCUOLA



I NUOVI ORGANI COLLEGIALI NELLA SCUOLA!




Al momento il ruolo degli organi collegiali della scuola non ha subito nessun effetto ghigliottina ad opera della legge 107 se non alcune modifiche nella definizione del Piano triennale dell’offerta formativa e nella costituzione del comitato per la valutazione dei docenti cui la legge assegna una nuova funzione di concorrenza nella definizione dei criteri per la valorizzazione del merito.








Dopo l’approvazione della Legge 107 quello che più preoccupa il mondo della scuola sono le numerose deleghe conferite al Governo, come vuoti da riempire, al fine di provvedere al riordino, alla semplificazione e alla codificazione delle disposizioni legislative in materia di istruzione. Anche il Testo Unico, D.Lgs. n.297 del 1994, sarà ritoccato e con una scontata prevedibilità è naturale attendersi quindi un riordino degli Organi Collegiali con relativi ruoli e compiti rinnovati.

Secondo quanto leggiamo nel comma 181 della legge 107, il legislatore intende mettere mano ad un’opera di articolazione, rubricazione, integrazione e modifica delle disposizioni di legge; per arginare possibili norme in conflitto con le nuove disposizioni ha pure inserito un vezzoso comma 196 venendo così a sterilizzare le norme e le procedure contenute nei contratti collettivi, contrastanti con quanto previsto dalla presente legge.

Allo stato dell’arte, prima che un’onda anomala spazzi via questo stato di trepidazione creato dalla Buona scuola, le cui parole risuonano adesso come un mantra sociale dagli effetti devastanti, per procedere ad un censimento dei ruoli e delle competenze degli Organi collegiali e poter agire ope legis, è quanto meno essenziale conoscere gli ambiti d’azione entro cui è possibile difendere i ruoli che la legge assegna ancora alla collegialità. Prima che questa possa divenire, viste le deleghe concesse, solo un’usanza passata.

Così è importante scorticare all’interno della legge 107 quel che ancora resta, insomma dell’agire nel rispetto degli organi collegiali e com’è ovvio che sia, separarlo dal ruolo potenziato dei dirigenti scolastici.

Per intenderci nella legge si possono rintracciare molti profili in cui la collegialità perdura attiva ed inalterata. Il legislatore ha messo solo il punto su talune prerogative spettanti unicamente al dirigente scolastico, ma che al momento lasciano il tempo che trovano perché rimangono ancora evidenti spazi di concertazione.

Nel rispetto degli organi collegiali

Il D.P.R. 275 del 1999, regolamento sull’autonomia delle istituzioni scolastiche, definendo il coordinamento delle competenze, stabilisce che “gli organi collegiali della scuola garantiscono l'efficacia dell'autonomia delle istituzioni scolastiche nel quadro delle norme che ne definiscono competenze e composizione”. “Il dirigente scolastico esercita le funzioni di cui al decreto legislativo 6 marzo 1998, n.59, nel rispetto degli organi collegiali”(art.16); lo stesso principio del rispetto verso gli organi di governo della scuola è ribadito nel comma 2 dell’art.25 del D.Lgs. n.165 del 2001, dedicato ai compiti dei dirigenti delle istituzioni scolastiche, dove sta scritto che “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici, spettano al dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane”.

Al momento la ratio della legge 107 lascia pressoché immutato il ruolo degli organi collegiali; leggendo l’attuale comma 78, il legislatore ha chiaramente confermato che il dirigente scolastico, per dare piena attuazione all’autonomia scolastica e alla riorganizzazione del sistema di istruzione e garantire un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali, sia tenuto anche a rispettare le competenze degli organi collegali.

Per primo il comma 2 della legge 107 afferma infatti che sono le istituzioni scolastiche a dover garantire la partecipazione alle decisioni degli organi collegiali; la partecipazione è affermata come principio generale; di conseguenza, per effetto di tale asserzione, le istituzioni scolastiche, intese come espressione di tutte le sue componenti, concorrono alle decisioni, a tutela appunto del principio espresso nel comma 2.

Le istituzioni scolastiche intervengono in molte materie indicate nella legge e rinvenibili nei vari commi:

- effettuano la programmazione triennale dell’offerta formativa (comma 2) e le proprie scelte in merito agli insegnamenti e alle attività curricolari, extracurricolari, educative e organizzative e individuano il proprio fabbisogno di attrezzature e di infrastrutture materiali, nonché di posti dell’organico dell’autonomia (comma 6);

- individuano il fabbisogno di posti dell'organico dell'autonomia, in relazione all'offerta formativa che intendono realizzare, nel rispetto del monte orario degli insegnamenti e tenuto conto della quota di autonomia dei curricoli e degli spazi di flessibilità, nonché in riferimento a iniziative di potenziamento dell'offerta formativa e delle attività progettuali, per il raggiungimento degli obiettivi formativi (comma 7)

- predispongono il piano triennale dell'offerta formativa (comma 12) con la partecipazione di tutte le componenti dell’istituzione scolastica (comma 14), salvo quindi seppur modificato per certi aspetti il ruolo del consiglio di istituto ;

- possono promuovere nei periodi di sospensione dell'attività didattica, insieme agli enti locali, anche in collaborazione con le famiglie interessate e con le realtà associative del territorio e del terzo settore, nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, attività educative, ricreative, culturali, artistiche e sportive da svolgere presso gli edifici scolastici (comma 22);

-promuovono, all’interno dei piani triennali dell’offerta formativa azioni coerenti con le finalità e i principi e gli strumenti previsti nel Piano nazionale per la scuola digitale di cui al comma 56 e i cui obiettivi da perseguire sono indicati nel comma 58.

In questi casi ed altri, poiché trattasi di materie ricadenti negli ambiti di competenza delle istituzioni scolastiche, quand’anche non sia espressamente detto, ogni intenzionalità e azione in tal senso, richiede legittimamente l’intervento degli organi collegiali. La comunità scolastica con tutte le sue componenti svolge ancora un ruolo “partecipativo” e ai sensi del comma 78, il dirigente scolastico, per dare piena attuazione all’autonomia scolastica e alla riorganizzazione del sistema di istruzione agisce nel “rispetto delle competenze degli organi collegiali”.

L’unico riferimento esplicito alla concertazione è dato nel comma 29 della legge 107: “il dirigente scolastico, di concerto con gli organi collegiali, può individuare percorsi formativi e iniziative diretti all'orientamento e a garantire un maggiore coinvolgimento degli studenti nonché la valorizzazione del merito scolastico e dei talenti. A tale fine, nel rispetto dell'autonomia delle scuole e di quanto previsto dal regolamento di cui al decreto del Ministro della pubblica istruzione 1° febbraio 2001, n. 44, possono essere utilizzati anche finanziamenti esterni”.

Perché in questo caso il legislatore esprime chiaramente che sia necessaria una concertazione con gli organi collegiali proprio in questi ambiti? Forse perché c’è di mezzo l’utilizzo di finanziamenti esterni e le scelte operate in sinergia con gli organi collegiali si tradurrebbero in un atto di trasparenza dell’azione della Pubblica Amministrazione ? O semplicemente perché trattatasi di una défaillance terminologica?

Nuovo ruolo assegnato agli organi collegiali nella definizione del PTOF

Punto cruciale della mutata funzione degli organi collegiali si coglie precisamente nell’elaborazione del Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF). La legge 107 introduce che :“ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il piano triennale dell'offerta formativa”(comma 1, art.3).

A rimodulare la costituzione del vecchio piano dell’offerta formativa è il comma 14 che novella l’articolo 3 dell’antesignano D.P.R. 275 del 1999;

il comma 14 regola chi sono gli attori che concorrono alla determinazione del Piano: “il piano è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico. Il piano è approvato dal consiglio d'istituto”. Precedentemente era il consiglio di istituto a definire gli indirizzi generali per le attività della scuola e delle scelte generali di gestione e di amministrazione.

Secondo questa nuova prospettiva avanzata nella legge 107, prima che il collegio docenti elabori il Piano è necessario che il dirigente scolastico espliciti gli indirizzi per le attività della scuola e le scelte di gestione e di amministrazione, che non sono più generali come nel precedente articolo. Non si può dunque omettere che la definizione degli indirizzi e delle scelte di gestione del dirigente scolastico siano un punto cruciale da cui partire per l’elaborazione del Piano e che tale disposizione, imponga solo successivamente il passaggio deliberante nei due organi collegiali: collegio dei docenti e consiglio di istituto. A quest’ultimo organo è stata ridotta la funzione di organo di indirizzo anche se rimane vigente quanto indicato nel comma 6 del D.Lgs. n.165 del 2001: “il dirigente presenta periodicamente al consiglio di circolo o al consiglio di istituto motivata relazione sulla direzione e il coordinamento dell'attività formativa, organizzativa e amministrativa al fine di garantire la più ampia informazione e un efficace raccordo per l'esercizio delle competenze degli organi della istituzione scolastica”.

Non si passi dunque all’elaborazione del Piano senza le determinazioni dirigenziali che costituiscono il punto di partenza e i confini entro cui l’organo deputato alla redazione potrà operare. Il dirigente non è il solo a scegliere e a determinare l’offerta formativa, ma più in generale sono “le istituzioni scolastiche” ad effettuare “le proprie scelte in merito agli insegnamenti e alle attività curricolari, extracurricolari, educative e organizzative” (comma 6) e ad individuare “il fabbisogno di posti dell’organico dell’autonomia, in relazione all’offerta formativa che intendono realizzare” (comma 7).

Le istituzioni scolastiche decidono sull’offerta formativa, sulle iniziative di potenziamento e sulle attività progettuali che si propongono di attuare, ma individuano altresì le risorse umane e strumentali necessarie alla realizzazione del piano, espresse nell’organico dell’autonomia. Si intende che queste scelte siano il frutto di una concorrenza collegiale, benché al dirigente scolastico spetti definire gli indirizzi. Così, d’impatto, si ha come l’impressione che nella sostanza i poteri dirigenziali siano contemperati da quella che si potrebbe definire potestà delle istituzioni scolastiche. In sintesi, in certi ambiti della legge nessuna diminutio dei poteri della collegialità.

Nuovo assetto del Comitato per la valutazione dei docenti, comma 129 della legge 107

Rispetto al collegio dei docenti e al consiglio di istituto, nel comitato per la valutazione si assiste invece ad un nuovo assetto nella costituzione formale dell’organo che si vede anche attribuito un ruolo nella definizione dei criteri, ai fini della valorizzazione del merito; il comitato li individua esaurendo lì la sua funzione di garante.

L’art.11 del D.Lgs. 297 del 1994, novellato dal comma 129 della legge 107, vede l’entrata nel comitato di nuove figure provenienti non esclusivamente dal collegio dei docenti ma da altre componenti della comunità scolastica. L’organo, oltre ai due membri individuati nel collegio dei docenti, si arricchisce di un membro del consiglio di istituto, di due rappresentanti dei genitori, per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, un rappresentante degli studenti e un rappresentante dei genitori, per il secondo ciclo di istruzione, scelti dal consiglio di istituto; infine da un componente esterno individuato dall'ufficio scolastico regionale tra docenti, dirigenti scolastici e dirigenti tecnici.

Come già anticipato, ai membri del comitato spetta adesso l’onere di individuare i criteri per la valorizzazione dei docenti sulla base di determinate indicazioni fornite nello stesso art.11. Si tratta però di un ambito d’azione ridotto poiché l’organo è coinvolto solo nella fase decisoria della definizione dei criteri, attribuendo il legislatore al solo dirigente scolastico, la primazia di assegnare annualmente al personale docente un bonus per la valorizzazione del merito (comma 127).

Nella nuova regia del comitato, ai fini del superamento del periodo di formazione e di prova, per il personale docente ed educativo, l’organo collegiale è chiamato ad esprimere il proprio parere con una componente ridotta ossia senza genitori e studenti, ma con la presenza del dirigente scolastico, che lo presiede e con la rappresentanza dei docenti e l’integrazione del docente cui sono affidate le funzioni di tutor; la valutazione è di competenza del dirigente scolastico, ma lo stesso è tenuto a sentire il comitato.

Al contrario il comitato opera con la presenza di tutte le componenti per la valutazione del servizio di cui all’art.448 del D.Lgs. 297 del 1994, previa relazione del dirigente scolastico; nel caso di valutazione del servizio di un docente componente del comitato, ai lavori non partecipa l'interessato e il consiglio di istituto provvede all'individuazione di un sostituto. Il comitato esercita altresì le competenze per la riabilitazione del personale docente, di cui all'articolo 501 del decreto di cui sopra.


venerdì 1 maggio 2015

PENSIONI, CHIARIAMO LE IDEE A TUTTI, GIOVANI E ANZIANI !




PENSIONI, CHIARIAMO LE IDEE A TUTTI, GIOVANI E ANZIANI !


La “stretta” su requisiti di accesso e assegno di quiescenza produrrà effetti devastanti: anche chi lascerà con 40 anni di lavoro, nella maggioranza dei casi andrà in pensione con la metà e anche meno dell’ultimo stipendio. La beffa è dovuta al fatto che il sistema contributivo attuale prevede un’incidenza sull’accontamento previdenziale decisamente più sfavorevole al lavoratore rispetto ai modelli pensionistici precedenti. Negli altri Paesi, però, si continuano a percepire pensioni dignitose! Come mai?









Pensioni,  arriva il simulatore Inps: tanti lavoratori scopriranno che lasceranno dopo i 70 anni e con l’assegno sociale. Il sistema di calcolo, atteso da 20 anni e che nel 2016 sarà accessibile a 23 milioni e mezzo di dipendenti, permetterà al lavoratore di individuare il proprio conto contributivo.

Il problema è che la “stretta” su requisiti di accesso e assegno di quiescenza produrrà effetti devastanti: anche chi lascerà con 40 anni di lavoro, nella maggioranza dei casi andrà in pensione con la metà e anche meno dell’ultimo stipendio. La beffa è dovuta al fatto che il sistema contributivo attuale prevede un’incidenza sull’accontamento previdenziale decisamente più sfavorevole al lavoratore rispetto ai modelli pensionistici precedenti. Negli altri Paesi, però, si continuano a percepire pensioni dignitose.








Marcello Pacifico (Anief-Confedir): non dimentichiamo che circa quasi tre milioni di dipendenti statali si ritrovano con gli stipendi bloccati da sei anni e così sarà fino al 2019. E che quelli della scuola, dopo un fermo di stipendio decennale, riceveranno appena 5 euro come indennità. Intanto, i ‘Quota 96’ rimangono bloccati in servizio: ora serve anche un censimento. Ci rendiamo conto che il rispetto per il lavoratore e per la sua dignità umana è ormai sceso sotto il livello di guardia?

Dal primo maggio, i lavoratori avranno la possibilità di ottenere gratuitamente e on line il computo del loro futuro assegno pensionistico: potranno conoscere, in pratica, l‘entità della pensione maturata e gli anni di contributi ancora da versare per il raggiungimento dei requisiti minimi di accesso. Ad introdurre la cosiddetta “busta arancione”, attesa da almeno vent’anni, sarà un simulatore digitale interattivo messo a disposizione dall’Istituto nazionale di previdenza sociale. In questa prima fase potranno accedere al servizio, connettendosi al sito www.inps.it(link ‘La mia pensione’), solo i dipendenti con meno di 40 anni, già in possesso del pin Inps (richiesto sempre al portale dell’ente, che ne rilascia una prima parte subito e la rimanente via e-mail) e che abbiano versato almeno 5 anni di contributi.







Da giugno, si darà accesso agli under 50. L’obiettivo dell’Inps, scrive il Corriere della Sera, è “rendere possibile la simulazione della pensione a quasi 18 milioni di lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti e parasubordinati. Nel 2016 l’operazione verrà estesa prima ai lavoratori domestici e a quelli agricoli e infine ai dipendenti pubblici. Al termine del 2016 il simulatore andrà a regime e sarà accessibile da tutta la platea degli iscritti all’Inps, circa 23 milioni e mezzo di lavoratori”. Il sistema di calcolo permetterà al lavoratore, attraverso pochi passaggi, di individuare il proprio conto contributivo e “verificare se ci siano anomalie ed errori e segnalarli”.

Purtroppo, per moltissimi dipendenti, in particolare i più giovani e coloro che non possono vantare un altissimo numero di anni utili, il risultato del simulatore si rivelerà a dir poco traumatico: anche se le “stime vengono elaborate in moneta costante ipotizzando lo scenario base, cioè un aumento della retribuzione dell’1,5% l’anno e così del Pil”, potranno appurare che l’importo che percepiranno una volta raggiunta la pensione non sarà molto più alto dell’attuale assegno sociale. E anche per chi lascerà il servizio con 40 anni di lavoro non andrà molto meglio: nella maggioranza dei casi, andranno in pensione con la metà e anche meno dell’ultimo stipendio.







Anche per chi ha svolto 40 anni di lavoro, le prospettive non sono infatti migliori: il loro assegno di quiescenza non avrà nulla a che vedere con l’ultimo stipendio, come invece accadeva con il sistema retributivo. Ecco un esempio pratico: chi è nato nel 1990 e inizia a lavorare ora, potrebbe andare in pensione, dopo i 70 anni, con appena 400-500 euro (33% dell’ultimo stipendio), quindi, percependo meno dell’attuale assegno sociale. La beffa è dovuta al fatto che il sistema contributivo attuale prevede un’incidenza sull’accontamento previdenziale decisamente più sfavorevole al lavoratore rispetto ai modelli pensionistici precedenti.

E i pochi fortunati che possono lasciare prima, si vedranno quasi sempre decurtare l’assegno pensionistico di cifre non indifferenti, anche del 25 per cento. Ma siccome il potere d’acquisto delle pensioni è in caduta libera: in 15 anni è diminuito del 33%, tanto che già oggi per più di quattro pensionati su dieci l'assegno non arriva neppure a mille euro al mese”, oltre la metà (il 52%) delle donne, è evidente che in questo modo si sta andando sempre più verso un Paese composto da pensionati ex lavoratori ad alto rischio povertà.








La ‘stretta’ non ha risparmiato i requisiti per l’accesso. Basta dire che nell’ultimo quinquennio le riforme sulla quiescenza hanno allungato di dieci anni l'età pensionabile: tra 15 anni, nel 2030, si potrà accedere alla pensione di vecchiaia solo oltre i 68 anni; dal 2050, i neo-assunti potranno andare in pensione dopo 70 anni o 46 anni e mezzo di contributi. Mentre per accedere all’assegno di quiescenza anticipato bisognerà aver versato attorno ai 44 anni di contributi.

“Parlare di festa del lavoro con queste prospettive – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – lascia davvero tanta amarezza: deve essere chiaro che l’inasprimento delle norme che regolano i livelli retributivi pensionistici, sommate a quelle sui requisiti di accesso, hanno portato le nuove generazioni a dover lavorare una vita per avere, nella terza età, importi da assegno sociale. In pochi decenni, circa 40 anni, la pensione media verrà ridotta della metà rispetto ai livelli attuali”.







La stretta sulle pensioni, tra l’altro, è un’ingiustizia tutta italiana: in Germania, dove la crisi economica è comunque presente, si continua comunque ad andare in pensione dopo 27 anni di contributi. In Francia, l’età minima di pensionamento pur essendo stata innalzata è comunque stata fissata a 62 anni. Mentre ci sono altri paesi – come Polonia e Cipro – dove l’età minima per lasciare il lavoro in cambio di una pensione piena al completamento del numero di anni di servizio svolti, senza decurtazione, è fissata a 55 anni. E diversi altri, tra cui Belgio, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna, Lussemburgo (pag. 93 dell’ultimo Rapporto Eurydice della Commissione europea ‘Cifre chiave sugli insegnanti e i capi di istituto in Europa’), dove è possibile ottenere “una pensione piena al completamento del numero di anni di servizio richiesti”.

Nel nostro Paese, invece, si sta andando verso un sistema che chiede quasi il doppio dei contributi: di recente l’accesso alle pensioni è stato ancora più ritardato, con un decreto interministeriale, Mef e Ministero del Lavoro, che dal primo gennaio 2016 posticiperà di altri quattro mesi l’età e i requisiti per accedervi per via dell’innalzamento della soglia legato alle aspettative di vita crescenti (in particolare delle donne, ormai sopra gli 85 anni).









“Se a questa discrepanza – continua il sindacalista Anief-Confedir – si aggiunge il fatto che circa quasi tre milioni di dipendenti statali si ritrovano con gli stipendi bloccati da sei anni e così sarà fino al 2019, e che quelli della scuola, dopo tale fermo, riceveranno appena 5 euro come indennità, ci rendiamo conto che il rispetto per il lavoratore, per la sua vita professionale ma anche per la sua dignità umana, è ormai sceso sotto il livello di guardia”.

Già oggi la situazione peggiorativa sta coinvolgendo coloro che dovevano lasciare il lavoro con le vecchie modalità e che invece rimangono “incastrati” per l’entrata in vigore immediata dalla riforma pensionistica Monti-Fornero. Vale per tutti il caso dei ‘Quota 96’ della scuola, raggiunta sommando contributi ed età anagrafica, che a distanza di quasi tre anni rimangono in larga parte ancora sul posto di lavoro malgrado tutti, anche in ambito politico, gli avessero dato piena ragione. Per risolvere la questione, nei giorni scorsi è stato depositato nei giorni scorsi in commissione Lavoro l’ennesimo disegno di legge “che include anche la nuova salvaguardia per gli esodati”.







Secondo ‘Orizzonte Scuola’, “tra le questioni che fino ad oggi hanno impedito la risoluzione del problema, c'è quella finanziaria. Il DDL (Buona Scuola) affronta la questione, mettendo in evidenza come sia difficile ‘prevedere l’onere rispetto alla quantificazione di 4.000 soggetti interessati rilevata nel 2012 perché va valutato quanti siano andati in pensione a settembre 2013 o 2014 e sembra che circa 1.000 insegnanti abbiano potuto essere inseriti nella IV e nella VI salvaguardia per aver assistito familiari disabili nel 2011’. Insomma, urgerebbe, secondo il testo, un nuovo censimento per determinare il numero esatto e quantificare la portata economica del provvedimento”.

Tra i vari ddl allo studio c’è anche quello dell’on Damiano, che prevede una flessibilità in uscita permettendo il pensionamento già a 62 anni con 35 anni di contributi. Ma con penalizzazioni dell’8% (una sorta di quota 97) sull’assegno pensionistico: nella stessa proposta di legge, è inoltre contenuto un sistema di premialità per chi ritarderebbe l’accesso alla pensione con un 2% in più per ogni anno successivo al 66esimo anno di età fino ai 70 anni, che permetterebbero di avere un 8% in più sull’assegno di quiescenza.

In questi anni, per risolvere la questione di Quota 96, Anief-Confedir ha presentato diversi ricorsi: già nel 2011, appena approvata la Legge Monti-Fornero, il sindacato chiesto diverse modifiche in Parlamento. Le ultime, con emendamenti alla Legge di Stabilità approvata a fine dicembre. E anche con uno dei 91 emendamenti al disegno di legge 2994 sulla Buona Scuola, presentati alcune settimane fa in occasione dell’audizione tenuta dal giovane sindacato davanti alle commissioni Cultura e Istruzione di Camera e Senato. A quello stesso Parlamento, i cui componenti si sono detti d’accordo nello sbrogliare la situazione. Salvo poi soccombere, come accaduto nella scorsa estate, quando, trovato l’accordo delle Camere, ci ha pensato il Governo – con quattro emendamenti approvati dalla commissione Affari costituzionali del Senato al decreto di riforma - a bloccare il pensionamento ormai imminente dei ‘Quota 96’. Intanto, le conseguenze della ‘stretta’ si fanno già sentire: nella scuola l’anno scorso abbiamo assistito al dimezzamento dei pensionamenti, dovuto proprio agli effetti della riforma Fornero. Eppure, l'Italia ha già superato il record mondiale di età dei docenti: più della metà ha più di 50 anni, solo lo 0,5% ne ha meno di 30.








“Ora, dopo un tira e molla di due anni e mezzo, ci ritroviamo daccapo. Siamo arrivati al punto – dice sempre Pacifico - che per mandare in pensione dei dipendenti dello Stato che avevano iniziato l’anno scolastico 2011/12 sapendo di andare in pensione, tocca ora realizzare un censimento. Intanto il tempo passa e alla fine andranno in pensione perché è arrivata quella di vecchiaia. Intanto, i requisiti minimi per lasciare il lavoro stanno andando verso quota 120 e forse oltre. Che primo maggio può essere questo per i lavoratori italiani?”.

“Cosa hanno da festeggiare dei lavoratori costretti a lasciare il lavoro sfiniti, a cui viene negato il diritto della parità retributiva essendo la pensione una retribuzione differita? Il tutto, mentre lo Stato paga soltanto contributi figurativi, al posto del gettito corrente nelle casse dell’Inps, che ne ha generato il buco di bilancio e che potrebbe mettere a rischio la stessa erogazione di pensioni e liquidazioni? Noi, però, non ci stiamo: contro questa ingiustizia, che si ripercuote negativamente sull’assegno di pensione, Anief è pronta a ricorrere in tribunale”.
Fonte ANIEF